26 Luglio 2022.
Aereo Porto-Milano Malpensa.
Partenza presunta 17.20 – fuso orario di Londra – e arrivo previsto 20.40 fuso romano.
Nessuno dei due è stato rispettato.
Per motivi non chiariti siamo partiti con più di un’ora di ritardo e, come conseguenza, l’arrivo a Malpensa ha coinciso con l’esplosione di un temporale.
Da oggi in poi, non sarò più in grado di vedere un temporale allo stesso modo.
Abbiamo volteggiato attorno alla nube densa di lampi, intrisa di liquido, grondante di fulmini per almeno un quarto d’ora.
Ammutolita da uno spettacolo abbacinante, non mi ha sorpreso il comandante quando ha affermato l’impossibilità di atterraggio e la dovuta deviazione a Genova.
Una ventina di minuti scarsi sono stati sufficienti a raggiungere la nuova meta.
Il cielo lì, lo stesso di prima eppure così distante, era limpido, in pace.
Durante l’ora seguente siamo rimasti prigionieri di una fornace puzzolente di gasolio e sudorazione. Duecento sardine brontolanti e rassegnate.
Mi aspettavo (e pretendevo) una ripartenza dato che le previsioni su Milano erano migliorative… ed infatti è stato così: dopo un’ora siamo ripartiti.
I successivi venti minuti sono trascorsi con terribile lentezza, addirittura: con passo rallentato.
A Milano non pioveva più, ma la perturbazione si era spostata a sud, venendoci incontro.
Siamo piombati d’un tratto in una fitta nebbia di nubi dalle tinte di un mondo oscuro fatto esclusivamente di grigi e neri. E bianchi. Il bianco lattiginoso dei lampi; e il bianco accecante dei fulmini.
Siamo piombati in un incubo. Stesse tonalità, stessa nebulosa, ma netta definizione di particolari. Ho smesso di contare quei fulmini taglienti, a poche centinaia di metri di distanza, scacciando dalla mente il timore che il prossimo avrebbe potuto colpire un’ala, la coda, il comandante in persona o il cuore meccanico dell’intero ingranaggio.
Il capitano ci rassicurò: “Venti minuti all’atterraggio.”
Neppure mi passò per la mente di controllare l’ora.
In lontananza ho notato flebili luci di un altro aereo. Non potevo capire se anche quello era nella tempesta oppure oltre.
Sono iniziate poi le turbolenze. Alcune così forti da sbatterti via dal sedile, non ci fosse stato il rigido cinturone a trattenerti. Può sembrare inutile, ma credetemi: saremmo levitati tutti una volta sbattendo le teste tra noi come gusci di uova sode. Nei nostri crani si sarebbero formate crepe frastagliare tanto quanto i fulmini all’esterno.
Mi sono mantenuta calma, perché tanto il panico non avrebbe cambiato le sorti predefinite.
In volo prego. Perché sono più vicina a Dio (ma lo siamo sempre, no?) e perché dicono che in viaggio ti ascolti ancor di più.
Dopo il segno ortodosso della croce, mi sono confortata pensando che Doamne Ajută.
Pensieri di morte però prendono forma e sono difficili da scacciare.
Certe morti sono terribili.
Ritornavo dal Paradiso ma ora procedevo nei gironi dell’Inferno.
Quando però la morte giunge, il dolore attanaglia i cari superstiti. Non volevo essere fonte di dolore per nessuno. I morti se ne vanno in una realtà nuova lasciandosi alle spalle la presunta giustizia umana.
Sui vivi piomba un peso, un dolore devastante, una forza opprimente, attanagliante.
“Dieci minuti all’atterraggio.”
Per gran parte del tempo restante ho tenuto gli occhi chiusi, le dita strette, le labbra serrate. Paura? Sì. Di vomitare.
Fin da bambina ho sofferto e soffro tuttora di mal d’auto, mal di mare ed anche mal d’aereo in caso di turbolenze.
La bocca fino a quel momento asciutta ha cominciato a riempirsi di saliva.
Ho inghiottito. Ho resistito.
Interminabili dieci minuti.
Una tempesta vista dal basso affascina. Una tempesta vista da vicino ti lascia stupefatto. Terrorizzato. Minuscolo. Ti ricorda che vali quanto un granello di sabbia, forse meno?
Dopo uno sbalzo qualcuno ha urlato ma i familiari l’hanno zittito. Tutto sommato, siamo stati passeggeri disciplinati.
Il panico è comprensibile e inutile. È proprio nei momenti estremi che bisogna concentrare tutte le forze mentali, perché potrebbe essere richiesta un’azione rapida ed efficace.
Ho aperto gli occhi un istante per vedere i fulmini squarciare il cielo oscuro. I lampi illuminavano a intermittenza un panorama agghiacciante, nero come la pece.
“Ho paura” esclamava una ragazza filmando dal finestrino.
Il riflesso le impediva di catturare un’immagine decente.
Non era l’unica a provarci.
Io ho scartato l’ipotesi immediatamente. Un fotogramma sfumato da un oblò non poteva risultare altro se non una macchia scura, sfocata. E che cosa ci avrei fatto poi? Quello scatto avrebbe sminuito l’immensità, la potenza titanica della Natura.
Per di più, se quel telefono finisce arrostito, ci si ricava davvero poco…
Il tempo luciferino sembrava giungere al termine perché cominciarono le manovre di atterraggio.
Non volevo vomitare perché la situazione era già abbastanza annichilente. Ho afferrato comunque una busta resistente contenente un torsolo di mela di poche ore prima, just in case.
Alla fine siamo atterrati.
Sospiri di sollievo generali, un applauso debole ma sentito.
Che uomini coraggiosi questi piloti. Con la vita sulla schiena di duecento persone, moltiplicata per interconnessioni di familiari e amici. La fermezza, la lucidità mentale. La volontà e la concentrazione destinate al perseguimento di un unico obiettivo.
Afferrato il telefono mi sono liberata della fastidiosa modalità aereo. Visto l’ultimo messaggio mandato a mamma ho spalancato la mandibola.
I venti minuti erano durati un’ora: era quasi l’una di notte.
Mi ha guidata a casa un comandante risoluto e sensibile. Certo non aiutava dire che avremmo impiegato più tempo… Mi ha illusa e lo ringrazio.
Che sensazione sublime pestare i piedi a terra. Guardavo dritto e in basso. Ignoravo il cielo.
Le gambe riconoscenti riacquistavano vigore.
“Nel posto sbagliato al momento sbagliato” mi pare un detto insensato imposto da noi umani per giustificare eventi incomprensibili.
È la sorte a decidere. È la vita. Il destino o come vogliate chiamarlo. È Dio.
Non esiste posto o momento sbagliato.
Esiste il rischio di perdere la vita.
Ed esiste il momento, unico per ciascuno, in cui quel rischio si realizza.
Sono viva.
Sulle rive selvagge dell’oceano ho visto il Paradiso Terrestre.
In quel momento avevo appena attraversato l’Inferno.
Sono viva.
Grazie. Mulțumesc. Gracias. Thank you. Obrigada.
P.S. Alla fine quella busta col torsolo di mela l’ho dovuta usare, nella solitudine e nella riservatezza del mio cortile.